Una mattina a teatro... in un Palazzo d'Occidente

(Tempo di lettura: 2 - 4 minuti)

La storia delle sorelle Porro rivissuta una mattina a scuola per ricordare il loro eccidio in quel lontano 1946... una lezione di vita e di teatro.

Lo spettacolo Palazzo d'Occidente, dedicato alla storia delle sorelle andriesi Porro, è stato messo in scena in modo originale nonostante lo spazio a disposizione non fosse propriamente un teatro, eppure con pochi oggetti di scena è stato possibile fornire le giuste suggestioni agli spettatori.  Penso che  questo modo di  “fare teatro” ben si adatti a quanto abbiamo studiato del Teatro del secondo  Novecento, con l’abbattimento della “quarta parete” che più di una volta è risultata inesistente durante la performance  e questo ci ha fatto sentire tutti coinvolti dalle domande dirette, e non, delle due protagoniste, ma soprattutto dalle riflessioni e dalla improvvisa consapevolezza di essere tutti colpevoli di qualcosa o forse di nulla.
Si è notata molto l’analogia che c’era tra la condizione rappresentata in un determinato momento e i colori degli abiti indossati dalle due donne che variavano dal bianco al nero, dalla vita alla morte, dalla giustizia all’errore, dall’iniziativa alla richiesta disperata del perdono, dall’ “oggi” ad un domani che due sorelle su quattro non avrebbero visto e un domani che la coppia rimasta non avrebbe voluto vedere. 
Abbiamo assistito ad una tragedia che metteva in scena sicuramente un evento finalizzato alla denuncia, alla critica di una società disperata la cui rabbia prende il sopravvento sulla ragione, facendo scaturire  nel pubblico emozioni contrastanti come il senso di colpa, la pietà e la compassione. Personalmente mi sono sentita chiamata in causa più di quanto immaginassi e volessi perché effettivamente siamo tutti colpevoli di qualcosa, e l’indifferenza è una grande colpa come anche la complicità e l’omertà. Siamo tutti convinti di ciò che pensiamo e di ciò che vogliamo; poi qualcosa succede concretamente e improvvisamente la realtà dei fatti diventa un’ombra e in seguito senso di colpa dal quale ci nascondiamo dietro ad un “non ho fatto niente” per non distruggerci. Ma lì c’eravamo, nella nostra testa mentre mulinavano tutte le nostre convinzioni, e fuori, mentre le nostre convinzioni si battevano al posto nostro, permettendoci di avere le mani pulite al contrario della coscienza, e questa consapevolezza ci perseguita costantemente. 
Dobbiamo mentire a noi stessi per stare meglio perché in fondo il giudizio che ha ognuno nei propri confronti è l’unico da cui si sente davvero il bisogno di proteggersi. E alla fine, lo sappiamo tutti di non essere così innocenti… Siamo tutti colpevoli e siamo tutti egocentrici, credendo che in questo mondo alla fine meritiamo il meglio e che siamo gli unici attorno cui debbano ruotare tutte le nostre priorità. E alla fine ci ritroviamo in un vortice di “io” che si mischiano fino a creare un noi, un unico grande colpevole dentro al quale non si riconoscono più i volti di nessuno.    
Lo spettacolo era prossimo alla fine quando ci hanno posto l’ultima domanda indiretta di quell'ora trascorsa mettendo alla prova noi stessi; è iniziato tutto quando hanno indirizzato un riflettore verso una faccia molto sottovalutata della medaglia che eravamo concentrati ad analizzare. Come è proseguita la vita delle sorelle ancora in vita? Perché sì, la folla aveva le sue colpe, la giustizia altrettante e sicuramente anche la società aveva avuto la sua parte, ma come ci si deve sentire quando per timore verso se stessi si rinuncia a tentare di correre in soccorso delle persone più importanti della nostra vita? O che credevamo fossero le più importanti della nostra vita... Non nascondo di essermi sentita in colpa quando ci è stato chiesto cosa avremmo fatto se ci fossimo trovati costretti, ma allo stesso tempo fin troppo liberi, a guardare nostro padre o nostra madre da una finestra mentre venivano uccisi. La domanda mi ha messa in uno stato di soggezione per due motivi: mi sono domandata innanzitutto perché le due attrici avessero dato per scontata la parola “costrizione” quando in realtà l’unico limite in quel caso era costituito dall’incolumità personale. Ed è lì che ho capito quanto siamo colpevoli, perché pensandoci anch’io mi sono posta la domanda in prima persona: se fosse successo a me, cosa avrei fatto?” 
Non ho ancora chiaro se dentro di me sarei stata disposta a farmi uccidere o infinitamente in colpa per il solo fatto di essermelo chiesto.

 

Marina Manco 

L'autore
: Marina Manco

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