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"Doxa" ed "Episteme"... Chi sa, fa

(Tempo di lettura: 3 - 6 minuti)

Citazioni colte per il nostro Premier nell’informativa alla Camera dei Deputati del 30 aprile scorso.

Dovendo giustificare il suo operato e la necessità da parte del Governo di allentare gradualmente la morsa restrittiva per il Paese, Giuseppe Conte non ha esitato a sfoggiare la sua erudizione da banco del liceo, scomodando addirittura Platone e Aristotele.
"La filosofia antica, da Platone ad Aristotele, distingueva la 'doxa', intesa come l'opinione, la credenza alimentata dalla conoscenza sensibile, dall'«epistème», la conoscenza che invece ha saldi basi scientifiche", un modo aulico per mettere a tacere i tentativi sovversivi delle forze dell’opposizione e difendere la razionalità critica che ha guidato il Governo in questa emergenza nel rispondere a quello che Conte ha definito l’«imperativo categorico» delle evidenze scientifiche e - aggiungiamo  noi - del Comitato tecnico. Anche il diktat kantiano era implicitamente dietro l’angolo per il Premier.
Le colte chicche di filosofia non sono sfuggite al nostro prof. Sabino Pastore – deformazione professionale! – che non ha esitato a dirci la sua.

La Redazione

Chi sa, fa

Il mondo in cui viviamo è il mondo della comunicazione a tutti i costi, dell’apparire più che dell’essere, del mostrare di sapere piuttosto che del sapere davvero. É la banalità iniziale, che andava detta e da cui si può partire per una piccola riflessione in forma di provocazione.
Molti anni fa insegnavo italiano in un istituto professionale e nelle mie classi, in particolare in quelle del biennio, galleggiavano alunni in attesa di assolvere l’obbligo scolastico per poi poter “andare a lavorare”, scopo primario della loro esistenza nella quale la conoscenza della grammatica o della letteratura rivestiva un ruolo secondario. Un giorno, alla conclusione delle lezioni, mi si avvicinò un ragazzo, chiedendomi se potevo dargli un consiglio. Mi spiegò che aveva una fidanzata che frequentava il liceo classico, con la quale litigava, perché lui spesso non comprendeva appieno ciò che si diceva a scuola e lei glielo spiegava, facendolo sentire molto a disagio. In particolare mi confessò un episodio: qualche giorno prima aveva sostenuto un’interrogazione con risultati scarsi e stava spiegando alla sua ragazza che spesso non riusciva ad esprimere neanche quel poco che sapeva, perché andava in confusione. Lei gli consigliò di affrontare la prova orale cercando prima di spiegare l’argomento per sommi capi e solo in seguito provare ad approfondire. Io gli dissi che la ragazza aveva ragione, poteva essere una strategia vincente, qual era il problema? Il problema era che non sapeva cosa significasse “per sommi capi”.
A quel punto gli consigliai di leggere, di studiare, di ripetere ad alta voce, di segnarsi le parole che non comprendeva per poi cercarle su un vocabolario, ma mi rendevo conto che in ballo c’era la felicità di una coppia, serviva una soluzione immediata, che potesse salvare il rapporto in attesa dell’evoluzione dell’alunno. Prendemmo appuntamento ogni sabato durante la ricreazione: io gli facevo imparare una parola o una frase “importante” e gli spiegavo come pilotare la conversazione in modo da poterla usare in presenza della ragazza. La prima fu “absit iniuria verbis” e ricordo ancora l’entusiasmo con cui il lunedì successivo mi venne incontro per ringraziarmi.
Non serve sapere, basta mostrare di sapere e, se si mostra di sapere, spesso si passa per uno che sa.

Veniamo al punto: doxa e episteme nel discorso alla Camera.

La dichiarazione colpisce ed è detta in modo da non poter essere confutata: chi si opporrebbe al ricorso alla scienza, chi preferirebbe l’opinione, il parere, l’impressione, soprattutto in questo frangente? Non serve dire la cosa giusta, basta mostrare che si sta dicendo la cosa giusta.
Proviamo a pensarci un attimo, però.
Se vogliamo affidarci alla filosofia antica, il problema da affrontare è quello dell’ordine del mondo: il primo a porlo in modo universale è Parmenide, secondo cui ciò che è non può non essere e deve essere uno, eterno, ingenerato, imperituro, eccetera. Poi c’è la strada percorsa dai fisici pluralisti (Leucippo, Democrito), che notano l’evidenza del fatto che la realtà non è unica e immobile, ma plurale e in movimento; come conciliare ciò che Parmenide aveva detto (e Zenone ribadito) con il fatto che le persone, per esempio, nascono e muoiono, con il fatto che Achille non sarà mai battuto nella corsa da una tartaruga? Sarà mica che il mondo è formato da particelle minuscole e indivisibili che, aggregandosi e disgregandosi, fanno sì che le cose nascano e periscano?

Poi c’è Platone, che ci propone la conoscenza vera (l’episteme) come via per conoscere ciò che assolutamente è, in contrapposizione alla doxa, l’opinione, che si pone in una posizione quasi intermedia tra l’essere e il non essere e ci fa credere di conoscere: non è la verità, ma è qualcosa. Fino a questo punto tutto bene, nella storia della filosofia e nei discorsi alla Camera, ma la cosa che dobbiamo chiederci è: per noi abitanti di questa realtà è possibile raggiungere la conoscenza vera?
Nel mito della caverna (Platone, Repubblica, libro VII) è chiara la contrapposizione tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile. Il primo è la pallida copia del secondo, è un mondo fatto di ombre, quelle che gli uomini incatenati vedono proiettate sul muro in fondo alla caverna. Per essere più chiari: il nostro mondo non è il mondo della verità.
Quando parla del demiurgo (Platone, Timeo, 27d-), Platone lo fa descrivendo un artefice che plasma i modelli eterni presenti nell’Iperuranio, il mondo intelligibile, rendendoli materiali. Di questo mondo, che imita solo la perfezione del mondo delle idee, noi possiamo avere conoscenza, ma sarà conoscenza delle copie, delle pallide imitazioni, delle ombre delle idee. Di questo mondo noi possiamo anche conoscere tutto, ma sarà sempre e solo un’opinione, mai conoscenza vera, purtroppo per noi (e ringraziando Platone…).
Faccio un salto di un paio di millenni: Popper, in fondo, diceva la stessa cosa: quelle che noi chiamiamo leggi scientifiche possono dirsi tali solo se sono falsificabili e confutabili; tradotto il lingua corrente, significa che ogni legge scientifica è solo e sempre una teoria, che può essere corroborata da verifiche sperimentali sempre più precise, ma che, dobbiamo ammetterlo, può anche essere smentita dalle stesse evidenze sperimentali. Se potessimo chiedere ad un uomo del XIX secolo quale sia la particella più piccola di cui è composta la realtà materiale, ci direbbe senza nessun dubbio: l’atomo. In quel periodo la conoscenza vera, la scienza, ne era convinta, poi iniziarono ad emergere gli elettroni, il nucleo, le particelle subatomiche e così via. Quella che sembrava episteme, trasfigurava in doxa.

Tutto è in divenire, nulla è certo, ma si fa per dire…

Sommessamente.

L'autore
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