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Chi crede al sottosuolo?

(Tempo di lettura: 5 - 10 minuti)

Il fascismo rimette in piedi gli sgangherati paradigmi del mos maiorum. E siccome nell’esaltazione meccanica delle forme della Nike di Samotracia, vengono rimarcate le luci accecanti dell’imperfezione, della perfezione conflittuale della libertà, si finisce (nella più subdola inconsapevolezza) dimenticando un passaggio che antecede la prua della nave:  l’arretratezza della poppa.

La vittoria così diventa scabra, le sue spalle non più simmetriche. L’ideale si nebulizza nell’aria, sotto la fatica dei soldati che arrancano nel buio. Un fulmine squarcia il cielo; si camuffa da pater deorum la saetta pedestre di Amilcare Barca. Le ombre proiettate dalla luce permettono al coro dei venti di mettere in corsa gli uomini, tanto da parer ovvio il bisbiglio del lampo che grida: “Fermate il motore reboante della vittoria”. Ed è il suicidio della guerra.
Quando l’omicidio diviene reato?
Quando è dissacrante per l’etica delle civiltà ovvero le Erinni perseguitano il pubblico pudore. Sovviene in un momento la giustizia a decretare il vincitore: immancabilmente, per inspiegabili cambiamenti di rotta, decisioni contrarie o bivi del caso Atena alza il braccio di Oreste, l’assassino. E la sciagura del sangue, la carneficina della vendetta viene purificata in aulico canto venerato dai popoli, fintantoché la giustizia trova dimora nei templi divini della quotidianità. Il popolo, le masse, le folle nominano i loro condottieri, scelgono i propri ideali, talvolta li demandano a singole silhouette. Al tavolo dell’Areopago i convenuti attaccano il matricidio mentre la difesa scorre nelle sue mani l’alibi del filius pars patris. All’agitarsi di ideali, spasmodica lotta umana per la Dike, si contrappone il presidio di Atena che cerca con ordine logico una sua themis. L’interrogativo appare quindi il medesimo: in un reale scenario di lotta sanguinolenta fra “il bene” ed “il male” qual è l’epistemologia della Giustizia?
Una corsa, un ripararsi rabbioso della vendetta invasa Oreste che scappa e si rifugia; lo raggiunge Apollo che cammina e parla, parla e consiglia di vendicare il padre Agamennone ucciso da Clitennestra. Un alone di sangue albeggia sulle teste dei due, ed è buio ed è tempesta: la nube si sposta su tutta la città. Oreste ascolta l’ordine, arrivato ad Atene ed uccide la madre: Clitennestra. O Clitennestra, chi ti consigliò? Egisto, suo amante e consigliere, cade in un sonno perpetuo. Sangue chiama sangue che striscia e vomita mentre la giustizia sovente cammina ritta allo stesso modo di Atena che, con passi marziali, s’avvicina verso l’Areopago.
Un omicida (Oreste), un mandante (Apollo), tre ombre (l’accusa delle Erinni) e la Giustizia giudicante (Atena). Sul tavolo un importante e singolare caso: il matricidio.
È un problema d’interpretazione, il nostro affiliato alla parola, dibattuto nel tempo, galvanizzato dal tempo. L’idea di Giustizia si rinnova ogni volta in cui l’umanità si pone l’interrogativo della sopravvivenza, ogni giorno alzandosi e sedendosi, vivendo e restando in vita, gridando o stando in silenzio. L’omicidio doloso nel nostro ordinamento è considerato il reato consistente “nell'uccisione intenzionale di una persona fisica da parte di un'altra”; così appaiono legittime le conseguenze dell’istituzione di organi-mimesi d’un idea  e un iter processuale che è senz’altro ricerca umana di un colpevole. Audiatur et altera pars non è altro che il principio di giustizia che diviene sostanziale con la ricerca del contraddittorio; tuttavia i cittadini del mondo crescono, con loro l’umanità e il suo tribunale. Nel secolo decimonono una delle molte succursali del tribunale dell’Areopago ha dovuto giudicare un matricidio singolare, chimera dei reati non ancora ascrivibili all’umana concezione, in quanto l’imputato in latitanza regolarmente compiva furti contemporaneamente in due luoghi diversi dello stesso globo terrestre. Che strumenti di misura ha la libertà di pensiero?
Imputato è colui che è stato imputato, imputata è la persona. Nella tragedia di Eschilo le Erinni sono incarnazione della vendetta che maledice, sinuosa ombra che ammalia e ripugna: “Un canto di orrore vogliamo cantare e dire in che modo alle sorti degli uomini diamo ordine e legge, giustizia che diritto colpisce, questo è il compito nostro”.
È ancor più grave uccidere chi ti ha partorito perché figlio del tempo tuo vicino, perché quel sangue in parte  confluisce nel tuo: ecco la professione di fede delle Erinni. Uccidere Clitennestra è permettere all’uomo di scavalcare ogni valore su cui si fonda la morale umana in nome dell’onnipotenza del singolo. Clitennestra, d’altronde “si è liberata della colpa morendo”, Clitennestra non ha ucciso un consanguineo, Clitennestra: perché l’hai uccisa, Oreste? Il mare in tempesta scaglia le sue onde sul tempo: Oreste finisce per alzare la coppa del vincitore, le Erinni rimangono a vagare francamente nella Polis. Eppure la condanna è innovativa, il vino è diventato acqua in dispensa: la dea della Sapienza (ovvero la mente di Eschilo) aggiunge una rampa di scale all’edificio creatosi dall’inizio della narrazione, le Erinni diventano Eumenidi. Il logos di Atena prevale sull’insistente lamento pernicioso delle Erinni che ora non incarnano solo la sconfitta, una delle due parti offese in un circoscritto processo. La catena di omicidi che ha riguardato gli Atridi ha travolto eticamente e giuridicamente ogni cittadino e il bisogno di giustizia non si ferma nell’affidamento muto e passivo alla divinità da parte del popolo: la condanna è tanto vincolante per i manutentori dei templi quanto per i loro visitatori.

«Bada a come difendi costui perché scampi alla condanna» (v. 652)

Ora occorre distogliere lo sguardo un attimo dalla finzione che si è fatta realtà e tornare alla realtà che talora, brutalmente, si fa onomatopea della finzione. Enea diventa Roma, l’Ur-Fascismo prostituisce l’Urbe. L’otre dei venti convoglia le interpretazioni maturate dal tempo circa il fascismo, aprirle significherebbe dirottare la nave in mare aperto, rievocare i venti e cambiare il corso degli eventi.
Una delle prime interpretazioni nasce dalla tragedia. Il paesaggio sociale dell’Orestea che giuridicamente si conclude evolvendosi con l’integrazione delle Erinni non è ascrivibile all’interpretazione crociana: Benedetto Croce scrive il copione di un’altra tragedia dove Atena rimane statua patrona ed Oreste cittadino omicida. Il fascismo è dunque una “parentesi all’interno di un’evoluzione”, “malattia morale che avrebbe corrotto la società e la politica”: un matricidio avviene ad Atene e la realtà risponde alla realtà, gli uomini si fanno giustizia: l’omicidio volontario viene nuovamente ed ugualmente giudicato dall’Areopago. L’indetto processo pubblico rivela la colpevolezza dell’imputato da estinguersi con la morte. L’ultima interpretazione ad oggi pervenuta invece è più simile (e non congruente) alla tragedia greca di Eschilo: la tesi di un “vento eterno” od Ur-fascismo, il suo teorico è Umberto Eco.
È così illustrato il movente dell’omicida: “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” ovvero la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione Italiana. Sebbene, in questa divisione storica, il massimo comune denominatore divengono le Erinni (quoziente di Eschilo ed Eco) che perseguitano l’assassino, tuttavia la congruenza non si rivela; pur riportando il suddetto angolo in comune e pur non essendo congruenti, i lati dei due triangoli sono in proporzione. Nel nostro contemporaneo non c’è simulacro, non c’è teca né otre, il vento è costretto a vagare; è solo conoscendo la meteorologia che si va incontro alla pioggia e si costruiscono ombrelli. Ma la Iustitia romana condanna le persecuzioni avvenute, i peccatori divengono “santificatori” ed è il gioco della venerazione degli opposti, delle antitesi; Atena imbraccia le argomentazioni, il “condannato viene rieducato” a tal punto da raggiungere la venerazione e il rispetto degli Ateniesi che gli offrirà per placare la furia d’Erinne una pecora nera. Antitesi della giustizia ritrovata, del giusto processo è un fascismo eterno che vincola l’umanità ad un’analisi perenne degli accadimenti dove anche il consumismo dovrebbe costituire un interrogativo da porsi.
Per Umberto Eco: “la prima caratteristica dell’Ur-Fascismo è il culto della tradizione”, sezionare organi della Storia per venerarli, stabilendo in essi gli augùri di una propaganda dogmatica che rifiuta ogni tipo di modernismo. Perché, di fatto la ripetizione mnemonica di “tradizioni lontane” sono ancore radicate nel fondale marino del porto sicuro, della bonaccia, del controllo. Gli anelli si susseguono a formare la catena, l’ancora è buttata in mare. La nave pone molta attenzione nel non basculare, giacché ferma in mare aperto ogni movimento interno può compromettere il punto cui sopra: la stabilità ha, quindi, per conseguenza la definizione di propaganda come legge del non-moto.
“Per l’Ur-fascismo il disaccordo è tradimento”. Il disaccordo, la polemica non deriva che da pólemos; quest’ultimo essendo movimento esso stesso è per definizione ostile al fascismo. Ne viene che “la cultura, così come ogni forma di sincretismo sono sospetti”.
“Per l’Ur-fascismo non c’è lotta per la vita piuttosto “vita per la lotta”; il pacifismo è allora collusione col nemico, il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente”; tuttavia si scorge una contraddizione in quanto “dal momento che i nemici debbono e possono essere sconfitti ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un’età dell’oro che contraddice il principio della lotta permanente. Nessun leader fascista è mai riuscito a risolvere questa contraddizione”.
I quattordici “marcatori” dell’Ur-fascismo (o fascismo eterno col  prefisso tedesco -Ur “originario”; la suddetta espressione fonetica è presente, inoltre anche nella lingua mesopotamica caldea e runica con il significato di fuoco e/o torre, ariete,) presentati da Umberto Eco, si “contraddicono reciprocamente”, pur essendo “tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo”. Sono cariatidi che rivelano solo la testa, reggenti lo stesso peso del totalitarismo: sineddoche del fascismo (ovvero il tutto per la parte).
“E caddi come corpo morto, cade”. Chiudendo questa porta, chiudendo queste righe, spegnendo questo schermo alziamo i nostri volti. Di fronte a noi un muro di specchi neri e il nostro correre, lottare contro la parola.
Passano le ore, i giorni e i secoli e fra mille farneticazioni continuiamo a lottare contro il linguaggio. Quante volte l’avremmo detto o tacitamente pensato? Quante volte nel fondo del nostro silenzio abbiamo udito il vuoto della parola? Ci liberiamo di pesi morali, a volte; preferiamo non interrogarci, altre volte; finendo per derogare i nostri stessi diritti, ma nei confronti di chi? Adolf Hitler nel Mein Kampf (la mia battaglia) ha messo per iscritto i metodi della propaganda nazista, la capacità oratoria di un uomo che dopo essere stato bocciato all’esame di ammissione dell’accademia di belle arti di Vienna vaga per la città. Intanto una “nebulosa” si sta formando e le forze dell’ordine si accorgono che a Monaco il partito Nazionalsocialista sta avendo degli spasmi simili alle convulsioni di altre furie greche, lì verrà mandato un caporale per sondare il terreno, per tenere a bada gli animi ed il suo nome è Adolf Hitler.
La storia di lì in poi la sapete. Tuttavia è un concetto che egli scrive nel Mein Kampf che ci può far ricordare del fascismo eterno, nella propaganda politica: “La cosa più adatta sarebbe spostare incessantemente tutto il peso sulle spalle del nemico, anche se questo non corrisponde al reale corso degli eventi, come se fosse così nonostante la realtà”. Ecco di nuovo il suono allitterante dell’onomatopea cui prima facevamo riferimento.
Dalla marcia su Roma passerà un secolo, ma ogni istituzione che si fonda su ideologie dai contorni più o meno definite resterà soluta nell’aria. Il che riporta alla memoria l’incipit delle “Memorie del sottosuolo” di F. M. Dostoevskij: saremo tutti malati, uomini e donne con un tremendo male al fegato se non crederemo alla scienza di Eschilo. Saremo uomini e donne con un tremendo male al fegato ma con la ricetta medica stipata in cantina vicino a due bottiglie di acqua e vino.

L'autore

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