Ultima modifica: 31 Maggio 2016

Bella serata insieme al nostro Michele.

“La palla, il campo”, rappresentazione teatrale di Michele Palumbo, alle prese con la precarietà della vita.

Ciao Michele, non ti conoscevo fino ad oggi, ma questa sera, ascoltando la tua biografia raccontata dai tanti che ti vogliono bene ed assistendo alla rappresentazione teatrale “La palla, il campo”, mi hai donato, generosamente, la tua preziosa amicizia, un sentimento pregevole, una delle poche leccornie della vita.

Tutti, nell’auditorium del Liceo Scientifico di Andria, dove insegni da decenni, speravamo, che apparissi da un momento all’altro, e tu non hai tradito le nostre aspettative. Grazie. Un applauso scrosciante, infatti, ti ha accolto con calore, quando, nonostante stia attraversando un brutto quarto d’ora con la salute, sei apparso con la tua imponente presenza, con quella chioma irrequieta, con gli occhi fiduciosi che guardano lontano, con la determinazione di sempre, con… la generosa voglia di dare una mano ai giovani d’oggi, di cui nessuno, purtroppo, si interessa. L’individualismo esasperato, il consumismo sfrenato, infatti, la fanno da padrone ed i valori della comunità, soprattutto dei più fragili, e del territorio vengono vergognosamente disattesi. IMG_3293

E tu sorridevi. Felice. Per l’intero spettacolo. Le sofferenze inaudite che serpeggiano per il tuo corpo e l’inquietudine che turba la tua anima, da sempre inquieta per la ricerca del meglio, si sono dileguate. Stavi, infatti, raccogliendo ancora una volta, i frutti del tuo generoso lavoro. Ai miei occhi ti eri trasfigurato in quei momenti nel buon contadino andriese di una volta che, dopo aver seminato per la Murgia sassosa con una destra ed una sinistra che lanciano lontano semi di farro e grano del senatore Cappelli, (sinceri frumenti antichi, che non sono stati alterati dai bombardamenti dei raggi gamma), senza avvalersi dei disastrosi diserbanti e pesticidi, carica oltremisura, sul carro trainato da lenti e laboriosi muli, copiosi covoni sinceramente nutrienti.

Sì. Ti sei imbattuto mesi addietro nel pregevole libro “Dallo scudetto ad Auschwitz” di Matteo Martani. Una delle tante occasioni di riflessione e passione della tua vita. Man mano che lo leggevi, che le riflessioni, le emozioni ed i sentimenti fluivano come un torrente in piena dal volume con la copertina gialla che le tue mani avvinghiavano per la rabbia e la speranza, pensavi IMG_3288ai tuoi alunni. Non appena sei arrivato all’ultima pagina, ti sei scagliato al computer, e dopo qualche ora il copione era già pronto.

Guardavo dalla toppa della porta, quel giorno che tu, addossato alla cattedra, leggevi ai ragazzi della V B il copione del libro incentrato sulla figura dell’allenatore ebreo. Le ragazze ed i giovani, bellissimi, si trasfiguravano, man mano che avanzavi nel raccontare, come un cantastorie d’altri tempi, come l’Omero dell’Odissea, la vicenda umana di un campione e la tragica fine dell’intera famiglia e… di una fetta consistente dell’umanità. Diventavano leggiadri, perché emergeva il profumo della loro anima, che era maturata profondamente con le letture di Socrate, Pascal, Einstein…………., e la conoscenza della storia. Concordavate, così, di mettere in scena il testo teatrale, per provare con l’esperienza del palco i drammi, le sofferenze provocate da quello spregevole figuro che allora comandava in Italia, amico dello spietato ometto con i baffetti, che prendeva a calci il mondo, come se fosse un mappamondo, obbedendo alle disposizioni della grande industria guerrafondaia. Ingorda e cinica.

Man mano che provavate e vi addentravate nei meandri dell’anima di Arpad, nelle trepidazioni di sua moglie, Elena nelle speranze e delusioni dei loro bambini, Roberto e Clarta, costretti ad abbandonare gli amici di Bologna, a vivere di nascosto in una Parigi già sotto il piede della dittatura tedesca, a fuggire in Olanda, vi convincevate sempre più di aver fatto una scelta autenticamente importante. Poi i ghiribizzi della tua precarietà umana decisero di strapparti dal lavoro che, dopo la famiglia, ami più di ogni altra cosa. I ragazzi erano davanti ad un bivio, rinunciare o proseguire. A scacciare qualche ombra di dubbio, provvide il vento ruggente dell’esperienza lavorativa che avevano vissuto con te. Li avevi educati alla tenacia, alla partecipazione, al rifiuto della delega, perciò, erano in grado di continuare a percorrere la strada, il cui orizzonte era già stato delineato. Erano adulti, anche se avrebbero ancora desiderato qualche tua carezza educativa, mancando spesso nella nostra società la figura di padri autenticamente amorevoli.

Ogni tanto, stacco lo sguardo dal copione che ho tra le mani e dall’azione dei tuoi ragazzi, che disinvoltamente recitano sul palcoscenico, come se da sempre avessero fatto gli attori ed i registi, e ti guardo. Osservo i movimenti del tuo corpo, che ogni tanto scalcia dolorosamente. Tu, imperterrito, con le espressioni del volto, con le pupille che si schiudono e si rinserrano, con la bocca che si meraviglia, con i denti che digrignano, partecipi come regista all’azione scenica e come uomo alle sofferenze inflitte all’umanità intera. I tuoi ragazzi, sottecchi, ti guardano, senza distrarsi. Neanche una parola del copione a loro sfugge, neanche un suggerimento da te proposto viene tralasciato, neanche un moto sincero della loro anima trascurato.IMG_3292

Il pubblico segue in silenzio, volgendo la testa in direzione del personaggio di turno, di tutti gli alunni che hai voluto coinvolgere, come protagonisti. Nessuno è stato escluso, come invece si fa nella cosiddetta società civile. Hai sempre insegnato ai tuoi allievi ad essere protagonisti della propria vita. Lancio uno sguardo veloce all’intero auditorium, gremito fino all’inverosimile, e leggo la corale partecipazione, il messaggio che tu, Michèle (con la “e” aperta, perché sei una persona aperta alla vita di tutti) volevi trasmettere, assieme ai tuoi alunni, è arrivato nei loro cuori, lo dicono i loro occhi, la bocca che languidamente si dischiude o irrigidisce,  i loro corpi, coinvolti, che fremono di gioia per le vittorie del bravo allenatore, di rabbia per gli innumerevoli soprusi subiti e di speranza per un futuro  migliore, occhi che auspicano giorni di pace e di equità, di giustizia sociale, di amore per il proprio territorio, di attenzione alla verità. Valori che tu avevi proposto quotidianamente con la testimonianza di una vita e che ormai rientrano integralmente nella quotidianità dei tuoi allievi. E non solo.

Dopo che il primo narratore conclude con “Arpad Weisz è morto” e la luce del teatro si spegne, i cuori di tutti gli spettatori all’unisono si bloccano. Si riaccende la luce, esplode un prolungato appaluso, guardo nella tua direzione. Ti sei dileguato, in punta di piedi, con il cuore gonfio di gioia.

Grazie, Michele. E… auguri”

Domenico