Dante e Pasolini: storia di una Divina Mimesis

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Era il 1963 quando Pier Paolo Pasolini iniziò a lavorare alla riscrittura della Commedia dantesca in chiave autobiografica: la Divina Mimesis.

Si dedicò a questo progetto per un decennio e poco prima della morte, avvenuta il 2 novembre 1975, diede alle stampe il suo manoscritto incompiuto, a cui aveva affidato il bilancio di quella riflessione autoriale che aveva avuto in Dante un punto di riferimento costante.
Soltanto due furono i canti che Pasolini riuscì a riscrivere e pochi altri appunti per i canti successivi; la ragione fu forse nella difficoltà insita già nella premessa ideologica che lo aveva guidato in quella operazione: una mimesi linguistica, seguendo le orme di Dante, impossibile nella società del conformismo borghese, una società che apprezzava la bellezza di Marylin Monroe (cfr. La rabbia, film scritto e diretto da Pasolini e Guareschi nel 1963), ma trascurava la bellezza di una semplicità che aveva volutamente rimosso, quella delle classi subalterne. Ed è in quella società che Pasolini si perde, riprendendo nell’incipit della Divina Mimesis, proprio l’immagine della selva dantesca:

“Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita(Divina Mimesis, canto I)

Il periodo oscuro era la Selva della realtà del 1963, una realtà massificata, caratterizzata dal  silenzio della poesia (che già il poeta Montale aveva denunciato), una realtà in cui Pier Paolo Pasolini si ritrovò – continuando il primo canto della sua Mimesis – in una mattina d’aprile, quando entrò nel cinema Splendid a Roma: l’occasione fu la presentazione di 18 nuovi ragazzi iscritti al suo partito. E in quel preciso istante la ragione gli sembrò arenarsi e perdersi. E in quel preciso istante fu “ai piedi di un colle”, sotto “una terribile valle”; l’angoscia lo assalì e lo spinse a guardare in alto: una luce lo accecò, era la luce della verità.

“E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva”. (Inferno, Canto I vv. 22-27)

Si sentì un naufrago scampato al pericolo e si aggrappò alla terraferma. In quel silenzio apparvero una lonza, un leone e una lupa… non potè altro che tornare indietro, ma fu di nuovo bloccato da un’altra apparizione: una figura “ingiallita” dal silenzio, il se stesso degli anni ’50, “un piccolo poeta civile”, che come un novello Virgilio era pronto a tendere la mano verso di lui per riportarlo sulla strada della verità.

 Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco. 

Quando vidi costui nel gran diserto,
“Miserere di me”, gridai a lui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”
 (Inferno Canto I vv. 61-66) 

Quel Virgilio era, però, autorizzato a condurre Pasolini in un viaggio solo nel mondo terreno e non attraverso gli altri due regni: quello sperato (comunista) e quello progettato (neocapitalistico). E il viaggio iniziò nel mondo, dunque, e finì nel mondo, nell’irrealtà infernale contemporanea dell’omologazione piccolo-borghese, tra borghesucci che avevano abbandonato la singolarità e avevano scelto “l’esser come tutti”, eleggendo l’anonimato a condizione suprema della propria vita. L’inferno dantesco coincide quindi con la città neocapitalistica pasoliniana, dove l’auctor/agens della Divina Mimesis, in preda al metaforico peccato dello stato della normalità, cerca di uscire dalla crisi della sua coscienza e della società in generale muovendosi alla ricerca della verità, quella verità che dovrebbe coincidere con la poesia. Eppure l’agens Pasolini si mette in viaggio proprio perché l’auctor ha preso atto che la poesia /verità ha smarrito la Speranza dell’altezza. E lo fa seguendo il viaggio che Dante aveva compiuto nell’oltretomba, un percorso tutto trascendente  fino alla visione di Dio. Il viaggio e l’opera di mimesi/imitazione di Pasolini, però, a differenza di quello di Dante, rimarranno incompiuti perché non ci saranno risposte per lui: la sua riflessione sul ruolo autoriale approda alla consapevolezza dell’impossibilità del progetto mimetico e Dante rimarrà un modello irraggiungibile.
Un rapporto di vecchia data quello con l’autore della Divina commedia, testimoniato da una lettera che Pasolini rivolse a Luciano Serra, poeta e studioso della cultura popolare e dialettale reggiana, nonché suo amico: era il 1945 e in quella epistola Pasolini sottolineava quanto fossero fondamentali le scelte linguistiche di Dante per chi si approcciava ad una operazione di realismo in letteratura. All’indomani del secondo dopoguerra, infatti, molti intellettuali “impegnati” nella creazione di una cultura realistica, individuarono nell’autore fiorentino, sulle orme delle interpretazioni critiche di Contini e Auerbach, il fulcro del loro progetto ideologico.
Mantenedosi fedele a questa linea tracciata dai suoi amici e colleghi, Pasolini già in Ragazzi di vita e Una vita violenta mise in atto un plurilinguismo di ispirazione dantesca che si basava sull’empatia con i propri personaggi fino al regresso nel parlante e che gli consentiva di superare il gap tra la teoria e la pratica del realismo, su cui in quegli anni ’50 gli addetti ai lavori si stavano arenando. Affascinato dall’opera del poeta fiorentino, l’intellettuale corsaro, come Pasolini veniva definito, si propose inoltre di approfondirla, indagandone alcuni aspetti: nacquero allora il componimento Dal veroLa Mortaccia, un frammento narrativo che riproponeva in chiave moderna i primi due canti dell’Inferno, entrambi compresi nella raccolta Alì dagli occhi azzurri, il film Accattonela Mala mimesis, i saggi di Empirismo eretico e Petrolio (pubblicato postumo, 1992), lavori tutti percorsi da un’unica cifra distintiva: un confronto costante, sia letterale sia rielaborato, con il sommo poeta, maestro per la rappresentazione dell’altro attraverso il pluristilismo, dove altro è il popolo fino ad allora fatto agire sulle pagine attraverso un filtro prettamente borghese. 
Va segnalato a questo punto il saggio La volontà di Dante a esser poeta che Pasolini pubblicò nel 1965, anno del giubileo dantesco, sulle pagine del periodico Paragone. L’autore di Casarsa si era proposto di analizzare la letteratura italiana in termini di realismo linguistico, e, partendo dal postulato dell’identità tra stile e soggetto (teoria alla base del suo precedente saggio Intervento sul discorso indiretto libero), affermava che il plurilinguismo di Dante era stato espressione di una coscienza sociologica che aveva condotto il Sommo poeta a “sporcarsi” le mani con la lingua delle diverse classi sociali, fino a fare della sua opera un paradigma ideologico. Pertanto Dante, soprattutto in un momento di pieno conformismo linguistico e culturale oltre che di proposte letterarie stantie e conservatrici, poteva essere rivitalizzato, vissuto, agito. E il primo a cimentarsi e a tentare di mettere in pratica questa possibilità era stato proprio Pasolini. 
Eppure il processo di omologazione culturale e linguistica, che il boom economico degli anni ’60 stava portando a compimento, mise in crisi il modello di performatività che Dante poteva rappresentare: la distanza temporale e ideologica tra l’opera dantesca e la letteratura in quel preciso contesto storico e culturale era incolmabile e lo stesso Pasolini ne prese atto in modo lucido e critico. Scelse di interrompere il suo pamphlet.

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