Un figlio di tal padre: la singolare catabasi dantesca

Il termine “catabasi”, che deriva dalla parola greca “Katabasis”, formata da Kata “giù” e basis “cammino”, significa “discesa”. Inizialmente utilizzato in Grecia per indicare il discendere dalle terre interne verso la costa, sarà in seguito usato nella letteratura per indicare la discesa di una persona viva nell’Ade, il regno dei morti.

La Divina Commedia scritta da Dante rappresenta la più celebre catabasi della letteratura occidentale, ma non è stata l’unica. Già prima del Sommo Vate altri due poeti avevano raccontato nelle loro opere letterarie le vicissitudini dei protagonisti negli inferi: Omero nell’Odissea dedica un intero canto alla narrazione di Ulisse nell’Ade così come fa pure Virgilio nell’Eneide raccontando di Enea nell’Averno.
Sebbene la catabasi venga presentata in modo singolare in tutti e tre i poemi, alcune particolarità rendono l’opera di Dante più originale rispetto alle altre due.
La prima caratteristica è l’aspetto religioso: mentre nell’Odissea e nell’Eneide vi è una narrazione riconducibile al culto pagano, greco e romano, che per molti aspetti si assomiglia, la Divina Commedia è la prima e unica catabasi che si svolge nei tre mondi ultraterreni, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, che fanno riferimento alla concezione cristiana medievale. È pur vero che Dante colloca nell’Inferno personaggi e figure mitologiche, espressioni della cultura pagana greco-romana, ma il tutto, alla fine, soggiace al volere di “Colui che tutto move”, che è l’artefice stesso dell’Inferno dove relega i dannati e Lucifero.
La seconda peculiarità riguarda il momento della catabasi nei tre poemi. A differenza dell’Odissea e dell’Eneide, dove la discesa nell’Ade di Ulisse e di Enea è riportata solo in un unico canto del poema in quanto rappresenta solo una parte della storia dei personaggi, la Divina Commedia è interamente costruita sulla catabasi: rappresenta, infatti, l’intero viaggio di Dante attraverso i tre mondi del peccato, l’Inferno, dell’espiazione il Purgatorio, della salvezza il Paradiso. L’opera dantesca ha inizio nella “selva oscura” dell’Inferno e si conclude in Paradiso con Dante di fronte a Dio.
L’ultimo aspetto merita una riflessione più profonda perché riguarda le anime dei defunti incontrate dai protagonisti dei tre libri: Ulisse nell’Odissea, Enea nell’Eneide e Dante nella Divina Commedia.
Il passo più importante dell’XI capitolo dell’Odissea racconta l’incontro di Ulisse con sua madre negli inferi. L’astuto condottiero greco, ormai da anni lontano dalla sua isola, Itaca, è costretto dalla maga Circe a scendere nell’Ade per conoscere il suo futuro. Qui si stupisce di incontrare la madre, Anticlea, l’ombra della quale tenta più volte invano di abbracciare, che lo informa sui pericoli che correvano ad Itaca la moglie Penelope e il figlio Telemaco.  
Quasi allo stesso modo, Virgilio narra nel VI canto dell’Eneide la catabasi di Enea nell’Averno per rivedere il padre Anchise. Ritrovato il padre nel regno dei morti, Enea apprenderà da questi le motivazioni del suo lungo peregrinare. L’eroe troiano saprà da Anchise di essere il fondatore della stirpe romana e della città eterna destinata a dominare il mondo.
A differenza dell’Odissea e dell’Eneide, nella Divina Commedia, il poeta fiorentino non incontra i genitori defunti. Dante colloca nell’Inferno 210 personaggi, 88 nel Purgatorio e 66 nel Paradiso, ma tra questi non annovera i suoi cari. Sappiamo che perse la madre, Bella degli Abati, all’età di 5 o 6 anni, mentre il padre, Alighiero di Bellincione, morì prima ancora che suo figlio Dante mettesse mano alla stesura della Comedìa. Non si conosce la motivazione del perché Dante non abbia inserito i suoi genitori nella Divina Commedia, ma la si può immaginare sulla base delle ultime notizie che ci giungono, almeno sul padre.
Le informazioni provengono da due pergamene lucchesi di recente scoperta dalle quali si evince il ruolo assunto dal padre di Dante in un processo civile che vide coinvolto l’abate di un convento, “dedito ai piaceri mondani e dissipatore di denaro”, in gravi difficoltà economiche e al quale Alighiero, probabilmente, prestò denaro come usuraio, nonostante rivestisse la carica di procuratore giudiziale nello stesso tribunale dove si tenne la causa.
La ricercatrice Laura Regnicoli, docente all’Università di Firenze, ha eseguito lo studio su una delle due pergamene e  ne ha rivelato il contenuto nella “Rivista di Studi Danteschi”. Secondo la ricostruzione della studiosa, il tribunale di Firenze, dove si affrontavano le cause per debiti aperte al pubblico, rappresentava in quel tempo per gli usurai «un fertile bacino da cui attingere la clientela e che con ogni probabilità era frequentato anche dal padre di Dante in cerca di affari. Niente vieta allora di pensare che Alighiero, presente nell’aula del podestà il 5 settembre 1254, abbia offerto il proprio aiuto all’abate Nicola tanto carico di debiti quanto di proprietà con cui garantire i mutui. …le pergamene lucchesi assumono il valore esemplare di un’attività svolta da Alighiero, in forma più o meno continuativa, tale da costituire per lui una diversa modalità di esercizio dell’attività usuraria. In cambio di opera e soldi il padre di Dante ottenne verosimilmente un possesso dell’abbazia e forse, attuando una strategia finanziaria già di famiglia, prontamente lo rivendette, convertendolo in moneta sonante».
Che Alighiero di Bellincione eseguisse movimenti finanziari lo si deduce anche dalla prima parte dell’ultima tenzone con Forese Donati che accusa Dante di codardia per non aver vendicato l’offesa subita dal padre, consistente in una mancata restituzione di denaro: 

Ben so che fosti figliuol d’Allaghieri,
ed accorgomen pure alla vendetta
che facesti di lui sì bella e netta
dell’aguglin ched ei cambiò l’altrieri. […]

Alighiero di Bellincione era, dunque, un usuraio e si può ipotizzare che suo figlio Dante abbia evitato di inserirlo nella Divina Commedia per non collocarlo nel terzo girone del VII Cerchio dell’Inferno, tra i violenti contro Dio nell’operosità umana, arricchitisi grazie al facile denaro e non con la fatica di un onesto lavoro. Dante, che teneva all’immagine del suo casato discendente del valoroso cavaliere Cacciaguida, probabilmente, non cita mai il padre nella sua opera letteraria a causa della l’ignobile attività che questi aveva svolto in vita. Nell’Inferno per questi dannati la pena eterna da pagare consiste nel giacere nudi sulla sabbia arroventata dalla pioggia infuocata che scende impietosa su costoro. Gli usurai, descritti dal verso 46 al 57 nel XVII Canto dell’Inferno, usano continuamente le mani per ripararsi dall’aria infuocata e dalla sabbia rovente, così come in estate fanno col muso e con le zampe i cani quando sono punti dagli insetti, e portano sotto il collo una borsa sulla quale è riconoscibile lo stemma della loro famiglia:

 «Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
e di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:

non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo, or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani. 

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ‘l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io mi accorsi

 che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ‘l loro occhio si pasca.  […]».

Poche notizie, invece, ci sono giunte su Bella degli Abati, madre di Dante. Il poeta non la menziona mai esplicitamente nella Divina Commedia, ma, diversamente, ci fa capire come il poco tempo dell’infanzia vissuto con la madre non lo abbia mai abbandonato. In alcuni versi della Divina Commedia è esplicito il riferimento al legame affettivo che esiste tra madre e figlio.
Nei versi 37-41 del XXIII canto dell’Inferno, Dante paragona il gesto compiuto da Virgilio a quello di una madre che, svegliata dal rumore delle fiamme che la stanno avvolgendo, senza indugio afferra il figlio e scappa pensando alla salute del piccolo più che a se stessa:

 «Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura, […]».

Nei versi 1-3 del XXII canto del Paradiso, Dante, sopraffatto dallo stupore, si rivolge alla sua guida, Beatrice, come fa il pargolo rivolgendosi sempre verso quella persona con cui più si confida, in questo caso la madre:

 «Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida; […]». 

Nei versi 121-123 del XXIII canto del Paradiso, Dante descrive il gesto dell’infante che protende le braccia verso la madre dopo essere stato allattato mostrando un sentimento di attaccamento che si manifesta anche esteriormente:

 «E come fantolin che ‘nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ‘l latte prese,
per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma; […]».

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