E il mio Maestro mi insegnò…

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Raramente ci si trova di fronte ad artisti capaci, al contempo, di arricchirci culturalmente e farci divertire, in grado di aprire le nostre menti a nuovi orizzonti e di penetrare negli abissi imperscrutabili dell’animo umano, disinvolti tanto nell’approcciarsi a tematiche trascendentali quanto nel rappresentare la bruciante carnalità dell’esistere…


Uno di questi artisti, il Maestro Franco Battiato, ci ha lasciato qualche giorno fa, rendendo il nostro panorama musicale vivente più povero, ma entrando nel novero di quegli intellettuali che hanno incarnato il poliedrico genio italico. Il cantautore catanese, dedito anche alla pittura e al cinema, ha attraversato generi musicali antitetici senza mai snaturarsi, passando dalla musica elettronica a quella sinfonica, dal rock sperimentale alla più tradizionale linea melodica italiana e, nel maneggiare tutto questo patrimonio, è riuscito ad essere quasi sempre “pop” nel senso più nobile del termine: popolare perché la sua musica arrivava a tutti, popolare perché interpretava le diverse anime di una nazione.

Se ripercorriamo la sua carriera, ci rendiamo conto di quanto sia stato animato dalla voglia di conoscere, sperimentare, mettersi alla prova e soprattutto confrontarsi con musicisti di un certo calibro e liberi pensatori, atteggiamento tipico dei grandi che partono da presupposti di umiltà. Aveva solo diciannove anni quando decise di abbandonare la sua Sicilia e gli studi universitari in Lingue appena intrapresi, per tentare la professione di musicista a Milano: qui lavorò innanzitutto in ambito teatrale conoscendo Enzo Jannacci, Paolo Poli, Herbert Pagani e Giorgio Gaber, il quale divenne suo amico e produttore del suo primo 45 giri (La torre/Le reazioni) uscito nel 1967. Gli anni successivi furono caratterizzati dalla composizione di brani contenenti tematiche di protesta (erano gli anni caldi della contestazione giovanile) e sonorità beat, fino ad arrivare alla prima svolta sperimentale rappresentata dall’album di esordio del 1971, Fetus, quasi inclassificabile per le diverse sonorità prese in prestito e psichedelico nei contenuti, un album che scandalizzava già per la copertina, censurata perché presentava l’immagine di un feto. Da allora Battiato ha occupato gli scenari della musica italiana incarnando prima una certa controcultura degli anni Settanta, poi reinventando la canzone d’autore italiana negli anni Ottanta/Novanta (anche contaminandola con la musica etnica) e infine aderendo, in una prospettiva di sapiente riciclaggio postmoderno, ad una tendenza al “concept cover album” che gli ha dato la possibilità di omaggiare, nella stessa raccolta, Salvatore Di Giacomo e i Rolling Stones o Jimi Hendrix e Plutarco. In tutto questo camaleontico percorso professionale, il cantautore catanese ha incrociato anche il filosofo Manlio Sgalambro, coautore di molti suoi testi a partire dal 1994.

Proprio attraverso i suoi testi e i suoi versi vorrei provare a ricordare Battiato, conscia dell’estrema discrezionalità di ogni scelta (non esistono brani più meritevoli di altri) e della parzialità e soggettività di ogni possibile analisi, ma speranzosa di consegnare alle nuove generazioni qualche briciola degli “insegnamenti” del Maestro.

INSEGNAMENTO N. 1: La stagione dell’amore viene e va…

…i desideri non invecchiano quasi mai con l’età

Il brano La stagione dell’amore è un’originale ballata contenuta nell’album Orizzonti perduti del 1983: in essa l’autore allude all’alternarsi delle stagioni della vita e vede nel sentimento amoroso un parametro di riferimento del trascorrere del tempo. Come non considerare tale canzone come un incoraggiamento a guardare oltre le delusioni o le occasioni perdute del passato (ne abbiamo avute di occasioni perdendole/non rimpiangerle, non rimpiangerle mai) e a vivere le situazioni future con curiosità e voglia di rimettersi in gioco (ancora un altro entusiasmo ti farà pulsare il cuore/nuove possibilità per conoscersi)? E’ questo il Battiato che, nella certezza della perdurante vitalità dell’amore, ci fa sperare e credere nel ritorno della primavera dei sentimenti.

INSEGNAMENTO N. 2: Cerco un centro di gravità permanente…

…che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente

Il tormentone dell’estate 1982, facente parte del riuscitissimo album La voce del padrone (pubblicato nel settembre dell’anno precedente), è diventato un inno multigenerazionale, quasi un modo di dire comune per esternare il desiderio di stabilità in un mondo liquido, qual è quello della società postmoderna. C’è una “ricetta” per trovare quel centro di gravità?  Forse che sì, forse che no, avrebbe risposto Pirandello! Forse il Maestro Battiato, nell’apparente nonsense della canzone, ci indica un percorso da seguire, che è quello del sapere, della filosofia e della ricerca spirituale.

La vecchia bretone, i capitani coraggiosi, i furbi contrabbandieri macedoni e i Gesuiti euclidei (vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming) sembrano essere i personaggi da incontrare in un percorso iniziatico che conduca alla conoscenza del mondo, alla saggezza, alla presa di coscienza di sé. In questo misterioso cammino di elevazione spirituale e  progressivo distacco dalle incertezze del mondo rientrano sicuramente alcune suggestioni che Battiato mutuò da Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo, mistico, musicista e maestro di danza di origini greco-armene. Quello che più sorprende è però il fatto che la canzone Centro di gravità permanente sia arrivata a tutti, sia stata ballata da tutti, abbia divertito e intrattenuto anche chi non si è mai posto il problema del suo significato, e questo è a mio avviso il suo merito maggiore: diffondere suggestioni anche a livello inconscio. E allora: Over and over again!

INSEGNAMENTO N. 3: Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro…

Sempre dall’album La voce del padrone affiora un altro capolavoro di Battiato, Bandiera bianca, un brano impostato su un vorticoso succedersi di citazioni e sbeffeggiamenti. Si comincia dall’ironia esercitata su Bob Dylan, il cantautore americano futuro premio Nobel per la letteratura: il mister Tamburino dell’incipit è infatti Mr.Tambourine Man della canzone dylaniana, mentre il riferimento ai tempi che stanno per cambiare ci riporta al titolo di un altro brano famoso dello stesso autore, The times they are a changing. L’elemento comico nasce dal fatto che Battiato pensi, provocatoriamente, non a cambiamenti epocali ma ai cambiamenti meteorologici imminenti, motivo per cui invita tutti a mettersi la maglia.

Dissacrante risulta il riferimento a Beethoven, Sinatra e Vivaldi, ai quali Battiato sembra preferire, in un confronto assurdo, l’insalata e l’uva passa. La carrellata di invettive continua colpendo i dibattiti televisivi di carattere politico (quei programmi demenziali con tribune elettorali), i registi di film horror (gli idioti dell’orrore), la musica di basso rango e largo consumo (sommersi soprattutto da immondizie musicali).

Ma perché tanto astio? In realtà Bandiera bianca è una canzone che nel 1981 voleva denunciare un certo abbruttimento della società italiana causato dal consumismo, dalle violenze di piazza, dal progressivo degradarsi della classe politica; i giovani dell’epoca erano attratti dai miti della ricchezza e da prodotti artistici poco impegnativi e di facile consumo. In nome di questi nuovi pseudo-ideali ci si poteva permettere di rinnegare anche la cultura musicale più alta e, in relazione a tale degenerazione dei costumi, Battiato sembra arrendersi sventolando una bandiera simbolo di resa. Ma il Maestro si era veramente arreso? Io direi di no e affermerei che il segreto della sua sopravvivenza in quel mondo banale e volgare era custodito dai suoi occhiali da sole (c’è chi si mette degli occhiali da sole/per avere più carisma e sintomatico mistero), quasi una lente capace di filtrare la realtà e uno schermo in grado di mantenere il giusto distanziamento da essa.

INSEGNAMENTO N. 4: Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere

…di gente infame che non sa cos’è il pudore!

Tutti i grandi Maestri sono stati delle guide morali, si sono indignati, hanno denunciato con i loro scritti soprusi, ingiustizie, viltà. Partendo da Dante e Petrarca e arrivando alle voci critiche di Pasolini e Sciascia, per citarne solo alcuni, la nostra letteratura è costellata di autori che hanno saputo denunciare i misfatti del presente e scuotere le nostre coscienze. Nella mia quasi ventennale esperienza di docente di Lettere, mi è capitato qualche volta di proporre ai miei alunni anche la lettura del testo di Povera patria di Battiato e ho avuto conferma, ascoltando o leggendo i commenti dei ragazzi, della potenza e dell’efficacia comunicativa del brano nonché della sua imperitura attualità.

Tra i governanti
quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore.
Ma non vi danno un po’ di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?

[…]

Ma come scusare
le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco e mi fa male
vedere un uomo come un animale.

I versi citati, risalenti al 1991, quando ancora c’era la prima Repubblica, potrebbero essere stati scritti dieci anni dopo o l’altro ieri; anzi, con il tempo hanno acquistato una veridicità sempre più calzante, e questo è indubbiamente il marchio distintivo dei grandi classici. Ma Battiato ci insegna solo ad indignarci? No, il testo ci presenta ancora una volta la speranza di un cambiamento (Sì che cambierà, vedrai che cambierà), anzi ci spinge a schierarci dalla parte di un doveroso cambiamento (che il mondo torni a quote più normali/che possa contemplare il cielo e i fiori/che non si parli più di dittature).

INSEGNAMENTO N. 5: L’EPILOGO: E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire…

E studiavamo chiusi in una stanza

[…]

e quando si trattava di parlare
aspettavamo sempre con piacere.

Se leggessimo i versi sopra riportati decontestualizzati, potremmo pensare che siano stati scritti in piena pandemia, nell’ambito della nostra recente (e non ancora del tutto superata) prigionia domestica. A me verrebbe da pensare ai tanti mesi di studio solitario dei miei alunni e alle poche occasioni per dialogare, scambiarsi sensazioni o opinioni. In realtà la canzone Prospettiva Nevski, contenuta nell’album Patriots del 1980, è ambientata nella San Pietroburgo del periodo successivo alla rivoluzione russa del ’17: all’epoca non c’erano tablet o portatili, ma si studiava con la la luce fioca di candele e lampade a petrolio; il mondo non era ancora interconnesso, ma c’erano vecchie coi rosari donne curve sui telai vicine alle finestre. Nonostante la distanza temporale e culturale ci riporti ad un mondo lontanissimo dal nostro, il brano è di un sapore struggente che si può avvertire solo quando sentiamo le situazioni vicine a noi, ai nostri umori e al nostro vissuto. Musica e parole toccano profondamente le corde della nostra emotività, evocano fantasmi della mente ma anche la voglia di uscire dall’oscurità e abbracciare l’alba: in fondo, il maestro che compare nella canzone insegna com’è difficile (ma non impossibile!) trovare la luce mentre incombe la notte, e di questo dovremmo fare tesoro tutti. Probabilmente Battiato aveva già pensato, nella sua lungimiranza e nella sua sensibilità ascetica, all’alba di una nuova vita ultraterrena e l’aveva fatto accostando al testo una musica dolcissima che è il sottofondo con cui vogliamo ricordarlo nel suo passaggio ad altre dimensioni nonché ringraziarlo per il suo estro, per le sue peripezie linguistiche, per le sue ardite sperimentazioni. Siamo un po’ tutti in debito con lui per le “cure” che ha prestato al nostro animo e per i colpi di genio con cui ha reso anche divertente l’ascolto di una canzone.

Grazie ancora, Maestro!

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