Ad esempio, a me piace il Sud…

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Allentate le tensioni di un periodo che nessuno di noi dimenticherà per la sua natura alienante e “dissociante”, ci stiamo riappropriando della linfa rivitalizzante dei rapporti umani e stiamo cogliendo nuovamente la possibilità di godere appieno anche delle bellezze della natura.

Abbiamo ancora dei vincoli, lo sappiano tutti, ci troviamo a dover circoscrivere ancora il nostro raggio d’azione, nell’attesa che la libertà di movimento personale possa tornare a non contemplare più confini regionali o nazionali; tutto questo però potrebbe funzionare come stimolo a guardare vicino, a valorizzare le bellezze che ci appartengono, a legarci di più alla nostra terra.
Quante volte ci è capitato di andare all’estero e di trovare pallide imitazioni delle nostre bellezze artistiche o scorci paesaggistici belli, sì, ma non comparabili con le nostre coste, le nostre distese di verde, con gli sprazzi di luce e i profumi che rendono unici i paesaggi nostrani? Quante volte un solo fotogramma di una pellicola cinematografica o alcune inquadrature di un programma televisivo ci hanno fatto riflettere su bellezze spesso dimenticate, seppur vicine? Anche la musica contiene questa magia: ci riporta alla mente suoni familiari o addirittura ancestrali, capaci di far pulsare in noi il timbro delle nostre radici; se la musica è accompagnata anche da tocchi pittorici, allora tutto può diventare, più palesemente, un inno a ciò che ci appartiene e al contesto a cui appartengono le nostre vite.
Ho sempre sentito affine alla mia sensibilità di donna del Sud un brano, forse poco noto, di Rino Gaetano, scomparso prematuramente il 2 giugno del 1981 per un incidente stradale: si tratta della canzone Ad esempio a me piace il sud, inclusa nell’album Ingresso libero del 1974, il primo 33 giri del cantautore calabrese. Con estrema semplicità, il testo fa affiorare i lineamenti di un paesaggio brullo ma poetico: ritroviamo in esso la vegetazione spontanea tipica della macchia mediterranea, i fichi d’India e le spine dei cardi, l’aridità dei campi, le spiagge selvagge e solitarie all’imbrunire. Ma ancor più vere e pregnanti risultano le rappresentazioni di tutto un mondo umano che si armonizza con il paesaggio naturale, senza mai stridere con esso: incontriamo donne che aspettano i mariti sull’uscio di casa, contadini per cui il vino (che producono!) è ancora un lusso, umili pescatori accompagnati dalle loro lampare, bambini che giocano per strada aiutandosi con la fantasia di chi ha pochi mezzi anche per giocare.

 Ad esempio a me piace la strada
col verde bruciato, magari sul tardi
macchie più scure senza rugiada
coi fichi d’India e le spine dei cardi
Ad esempio a me piace vedere
la donna nel nero nel lutto di sempre
sulla sua soglia tutte le sere
che aspetta il marito che torna dai campi

Ma come fare non so
Sì, devo dirlo, ma a chi

Se mai qualcuno capirà
sarà senz’altro un altro come me

Ad esempio a me piace rubare
le pere mature sui rami se ho fame
Ma quando bevo sono pronto a pagare
l’acqua, che in quella terra è più del pane
Camminare con quel contadino
Che forse fa la stessa mia strada
parlare dell’uva, parlare del vino
che ancora è un lusso per lui che lo fa

[…]

Ad esempio a me piace per gioco
tirar dei calci a una zolla di terra
passarla a dei bimbi che intorno al fuoco
cantano giocano e fanno la guerra
Poi mi piace scoprire lontano
il mare se il cielo è all’imbrunire           
seguire la luce di alcune lampare
e raggiunta la spiaggia mi piace dormire
.

[…]

Dal testo traspare un’atmosfera familiare che è tipica del nostro Sud, un afflato umano che ci fa sentire a casa, anche quando siamo ospiti o turisti di passaggio. Qualche anno fa, durante una vacanza in Calabria, immergendomi nella parte meno turistica e più autentica della regione, ho ritrovato con una certa emozione quel mondo cantato da Rino: sebbene fossero trascorsi quarant’anni dalla composizione del brano, alcuni tratti paesaggistici mi sembravano immutati, come non attaccabile dal tempo mi è sembrata la disponibilità della gente del posto, tra cui ricordo l’anziano signore che a Crotone mi accompagnò fin sotto la casa natale di Rino Gaetano, dopo aver capito che la stavo cercando da un po’.
A proposito dell’ospitalità del nostro Sud, mi vengono in mente anche alcune memorie di Cesare Pavese, condannato a tre anni di confino a Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria. Lo scrittore piemontese, sospettato di frequentare gli intellettuali della cerchia di Leone Ginzburg e accusato di antifascismo, nel 1935 era stato arrestato e rinchiuso dapprima nel carcere “Le Nuove” di Torino, poi nel “Regina Coeli” di Roma;  in seguito al processo, era stato confinato nel profondo Sud d’Italia, dove sarebbe rimasto dal 4 agosto 1935 al 15 marzo del 1936. Da Brancaleone Pavese inviò settantotto lettere, indirizzate prevalentemente alla sorella Maria, in cui manifestava le ansie e le normali preoccupazioni di chi era non era allineato con il regime; quello che più ci riempie d’orgoglio, sempre che in ciascuno di noi resti qualche briciola dei valori delle Civiltà del passato, è la lettura di alcuni passi in cui lo scrittore delle Langhe elogia gli abitanti del posto.  
In data 9 agosto 1935, a pochi giorni dall’arrivo a Brancaleone, così scriveva alla sorella: «Qui ho trovato una grande accoglienza. […]. Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno».

Famosa è la lettera indirizzata ad Augusto Monti, suo insegnante di italiano e latino al liceo classico “Massimo d’Azeglio” di Torino, anch’egli antifascista: «Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo “dando volta”, leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un’inutile castità».

Il 27 dicembre, rivolgendosi ancora alla sorella Maria, sottolineava: «La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono «Este u’ confinatu», lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico (poeta greco del VI sec. a. C.) e sono bell’è contento».
“U professuri” (così lo chiamavano) Cesare Pavese aveva quindi trovato, in uno dei periodi più difficili della propria esistenza già malinconica, un po’ di conforto umano nel nostro Sud tanto bistrattato, coltivando addirittura l’illusione di vivere nella Magna Grecia dei filosofi presocratici, di Pitagora, dei poeti della lirica corale.

Forse qualcuno dovrebbe spiegare – a certi direttori di quotidiani del Nord o a qualche cialtrone della politica – cosa è stato il Sud tra l’VIII e il III secolo a.C., quanto il Sud con la sua miseria ed arretratezza sia sempre riuscito ad onorare i doveri dell’ospitalità, a prescindere dalla provenienza geografica e dalle condizioni socio-economiche di chi lo raggiungeva (e continua a raggiungerlo!), quanto il Sud sappia coniugare la bellezza del paesaggio con la bellezza dell’Accoglienza.
Ad esempio, a me piace il Sud … anche per questo (senza togliere nulla al Nord)!

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